mercoledì 24 giugno 2009
iscrivetevi anche voi al PD e insieme cambiamo il partito
In questi giorni non c’è luogo democratico dove non si discuta del prossimo segretario. Il dalemiano, il veltroniano, la terza via, Debora Serracchiani tirata per la giacchetta da tutti per attirare e “accontentare” il rinnovamento (non i giovani, badate bene), Ermete Realacci, Marino in ticket con Finocchiaro, la Binetti magari in ticket con Pannella, i Piombini (di cui voglio premettere mi sento parte) in formato Repubblica dei filosofi anche loro ogni giorno dati di qua o di là.
In ogni corridoio dirigenziale cosi come nei circoli, nella mailing list, su Facebook e sui blog.
Tutti quanti stiamo cadendo nel solito giochino: un nome, una faccia, magari due.
Il tutto condito con sguardi all’UDC o Sinistra e Libertà in un delirio privo di idee e di programmi. Ha ragione Eugenio Scalfari: prima il PD decida cosa vuole essere, poi in base a questo si guardi intorno. Sembra che vogliamo essere qualcosa in base alla nostre alleanze. Più moderati (in realtà molto estremisti su certi temi) con l’ UDC, più laici e di sinistra con Sinistra e Libertà (ma sarà poi vero?).
La vera questione politica che nessuno affronta è: quale partito per quale paese. Ad oggi non mi è chiara la differenza tra Marino e Bersani e Franceschini. Quali le loro posizioni? Quale il loro programma? Quale il loro partito?
Dall’alto si cerca l’accordo per paura della discussione. Dal basso si cerca la rottura o comunque la riflessione, per il rinnovamento.
Nessuno ricorda che solo un anno fa nel Partito Democratico americano un uomo nero e una donna bianca si sono sfidati a colpi di coltello per la candidatura alla Casa Bianca. Hillary Clinton data per vincente perché candidata di apparato. Barak Obama forte di un consenso tra gli elettori.
Sappiamo tutti come è finita. Alle primarie all’ultimo sangue - con confronti su tutto dall’economia alla politica estera fino a quale forma di riconoscimento per le coppie gay - vinse Obama. Obama divenne il candidato di tutti i democratici ed ora è il Presidente di tutti gli americani. Questo dovrebbe insegnarci che lo scontro, quando è di idee e di programmi, non è da temere, perché è solo nella discussione profonda che nasce una linea chiara e da tutti condivisa.
Ma chi deciderà? Gli iscritti? Se fosse così sapranno gli iscritti interpretare ciò che gli elettori e quindi gli italiani si aspettano da noi?
L’unica battaglia, fortissima, che farei oggi, se fossi il segretario e che farò da militante di questo partito è convincere la maggior parte dei nostri elettori a farsi la tessera del PD, per poter incidere nel processo creativo e decisionale.
Tornare allo spirito democratico significa spingere affinché davvero questo partito torni ad appartenere ai suoi proprietari: gli elettori. Gli italiani.
Lanciamo un’OPA, sì. Caro elettore. Iscriviti al PD. Entra nei circoli e partecipa alla discussione e quindi alla decisione. Al Lingotto dirò questo. Anche questo.
di Cristiano Alicata
www.unita.it
sabato 20 giugno 2009
DOV’È IL TELECOMANDO?
Questa era la domanda che mi ponevo alla fine di un primo consiglio comunale brutto e brevissimo. Poi ho capito. Il telecomando non c’è. Non serve un congegno a distanza, visto che il neosindaco Coppari è un parto, un clone perfetto del vecchio sindaco Ballante. Chissà se era quello il senso del fiocco azzurro esposto sul cancello (!) dello studio legal-sindacale di Corso del Popolo 49/A! In perfetto stile ancien régime non è stato possibile ad alcuno pronunciare parola, e la risolutezza con cui è stata negata, a chi tentava di chiederla, è stata maleducatamente sottolineata dagli applausi della solita sgangherata claque di fauna avicola varia. Sappiano allora, il neosindaco transgenico Coppante e la sua claque, che il Consiglio Comunale è il luogo della discussione e non (solo) della presa d’atto di decisioni maturate altrove. Sappia allora, il neosindaco transgenico Coppante, che prima o poi dovrà rispondere, fra le altre e tanto per esemplificare, alla domanda su dove abbia sotterrato il suo senso del pudore assegnando l'assessorato all’urbanistica, con annesse edilizia pubblica e privata, a una signora con un fratello costruttore. E noti, il transgenico, che ho parlato di pudore e non di etica, sostantivo quasi sconosciuto alla professione avvocatizia, ed evidentemente ignoto a Corso del Popolo 49/A.
mercoledì 17 giugno 2009
Referendum: Io voto SI!
Intervista a Giovanni Guzzetta, Presidente del Comitato promotore dei
referendum elettorali
A cura di Tina Giunta e Nicolle Purificati
1. Perché una riforma elettorale tramite il referendum?
L'approvazione della legge elettorale (l. n. 270 del 2005) è stata accompagnata, sin dall'inizio, da numerose critiche, delle quali, tuttavia, nessuno è riuscito a farsi carico. Le proposte di miglioramento da tutti auspicate, non hanno trovato riscontro nei dibattiti parlamentari.
Lo strumento referendario, dunque, sembra l'unico in grado di raggiungere il duplice obiettivo di modificare, in senso migliorativo, la legge ed al contempo riaprire il relativo dibattito, anche in vista di un eventuale
intervento legislativo. Si tenga presente, inoltre, che le uniche modifiche sistematiche delle leggi
elettorali e del sistema politico centrale sono state sempre approvate per via referendaria (con i referendum del 1991 e del 1993).
Il primo quesito riguarda l'abrogazione delle coalizioni (approfondimento
<http://www.referendumelettorale.org/documenti/presentazione.htm> ).
tra liste. In caso di esito positivo la conseguenza sarebbe che il premio di
maggioranza verrebbe attribuito solo alla lista singola (e non più alla coalizione di liste) che abbia ottenuto il maggior numero di seggi. E, di conseguenza, verrebbero innalzate le soglie di sbarramento, che sarebbero ad
essere del 4% per l'accesso alla Camera e dell'8% per essere rappresentati in Senato.
<http://www.referendumelettorale.org/documenti/presentazione.htm> ) è
relativo al divieto di candidature plurime in più di una circoscrizione per
uno stresso candidato.
Esso mira a colpire l'ulteriore aspetto di scandalo rappresentato dalle
candidature multiple e dalla cooptazione oligarchica della classe politica.
L'eletto in più circoscrizioni, cd. "plurieletto", è infatti signore del
destino di tutti gli altri candidati, la cui elezione dipende, appunto, dal
fatto che egli, scegliendo uno dei seggi che ha conquistato, lascia liberi
gli altri. Il fenomeno descritto è oggi di dimensioni tali che non sembra
inopportuno parlare di una vera e propria patologia del sistema. Basti
pensare che ben 1/3 dei parlamentari attualmente in carica sonop stati
"eletti" per grazia ricevuta. Tutto ciò induce inevitabilmente ad
atteggiamenti di sudditanza e di disponibilità alla subordinazione dei
cooptandi, atteggiamenti che danneggiano fortemente la dignità e la natura
della funzione parlamentare. Per questa ragione è auspicabile l'eliminazione
- sempre mediante referendum - della facoltà di candidature multiple sia
alla Camera che al Senato.
4. Quali sono i motivi ispiratori della proposta referendaria?
Unità e trasparenza.
Quanto al primo obiettivo, il sistema elettorale risultante dal referendum spingerebbe gli attuali soggetti politici a perseguire, sin dalla fase preelettorale, la costruzione di un unico raggruppamento, rendendo impraticabili soluzioni equivoche ed incentivando una significativa ristrutturazione del sistema partitico. Si aprirebbe, per l'Italia, una prospettiva tendenzialmente bipartitica, con conseguente eliminazione della
frammentazione dentro le coalizioni.La proposta referendaria va incontro, inoltre, ad un'esigenza di trasparenza, la quale è realizzabile tramite l'eliminazione della facoltà di candidature plurime sia alla Camera che al Senato.
il referendum?
L'approvazione del referendum produrrebbe un radicale rinnovamento dell'attuale sistema elettorale - e, attraverso quello, del sistema politico - in grado di assicurare all'intero contesto politico più trasparenza, agli schieramenti più unità, ai cittadini più opportunità di spendersi per far valere le proprie capacità e meriti. L'eliminazione del frazionismo e dello
sbriciolamento della rappresentanza, garantirebbero una ristrutturazione profonda del sistema dei partiti. I quali sono sempre più avvitati su se stessi e stentano ad operare qualsiasi ricambio. Selezionano le proprie classi dirigenti in base a criteri poco trasparenti che spesso non hanno nulla a che vedere con il merito, le capacità o la passione disinteressata. I partiti, inoltre non riescono a realizzare l'unità negli schieramenti, con una strisciante, continua guerra di posizione ed uno scontro di paralizzanti veti incrociati, all'interno delle coalizioni. I partiti sono divisi e l'attuale legge elettorale ha ancor più esasperato le tendenze alla divisione e alla frammentazione. Tutto ciò è un freno per il cambiamento e impedisce di realizzare politiche ambiziose che migliorino effettivamente la nostra qualità di vita di
cittadini comuni. L'auspicio è quello di partiti aperti, sensibili ai flussi di novità che
provengono dalla società e più capaci di resistere alle pressioni degli interessi consolidati. Partiti responsabili, capaci di realizzare obiettivi, di innovare, di inventare il cambiamento.
Partiti dinamici, che non cedano alla tentazione di ripiegarsi su se stessi, di diventare oligarchie autoconcluse sorde al futuro.
Per ciò crediamo che ci sia un modo migliore di scegliere i parlamentari, evitando cosi' che centinaia di essi siano nominati per grazia ricevuta da
chi già è stato eletto. Per ciò crediamo che gli attuali partiti debbano rimettersi in gioco e
reinvestire le proprie tradizioni in qualcosa di più grande e di più coeso: soggetti unitari che si candidino a guidare il Paese, impiegando il proprio tempo nella realizzazione degli obiettivi promessi.
alleerebbero in un grande listone per poi dividersi dopo le elezioni.
L'obiezione muove dall'assunto che i sistemi elettorali siano del tutto ininfluenti sui comportamenti dei partiti e degli elettori. I partiti italiani, in particolare, troverebbero il modo di "aggirare l'ostacolo" unendosi fittiziamente per poi ridividersi dopo. Come dire: fatta la legge trovato l'inganno. Tuttavia, gli studiosi sono concordi nel ritenere che i sistemi elettorali non siano assolutamente irrilevanti sul modo in cui si strutturano il
sistema dei partiti ed i comportamenti elettorali. Si può discutere sul tasso di incidenza delle regole, ma nessuno ha mai messo in dubbio la connessione tra regole e politica. Penso che ormai il modello delle democrazie avanzate in cui due principali soggetti si contendono la guida politica del paese - fermo restando uno spazio per partiti minori non coalizzabili - sia ormai interiorizzato anche in Italia Trovare sulla scheda 15 simboli di partito per una sola coalizione (della quale manca, peraltro simbolo, nome, e leader) è cosa ben diversa che trovare un simbolo unico, un nome solo, l'indicazione di un solo candidato a Primo Ministro. Certo, i partiti potranno sempre "sganciarsi" dopo.Soprattutto fin quando non introdurremo in Italia regole come quelle tedesche che interpretano il principio del libero mandato parlamentare in modo meno trasformistico. Ma quali saranno i costi politici di rompere un'aggregazione suggellata da elettori che hanno votato il "tutto" e non le
singole parti? Non solo, ma l'assenza dei simboli dei singoli partiti impedirebbe loro di potere censire il proprio consenso. Il che non è di poco conto, perché li priva del potere di ricatto per così dire "certificato".
Il referendum, in definitiva, massimizza i costi politici delle divisioni e riduce la litigiosità,
Gli elettori, infine, hanno già dimostrato in diverse occasioni che vogliono
unità, sintesi, visione univoca. E che sono disposti a premiare - la lista dell'Ulivo docet - chi riesce a trasmettere questi valori.
7. Il referendum non è contro i piccoli partiti e contro il pluralismo?
Questo referendum non è contro nessuno. E, soprattutto, non è contro il pluralismo. Semmai è per un'Italia moderna e dinamica. L'obiettivo di indurre diversi soggetti politici a fondersi in grandi partiti non impedisce alle istanze minoritarie di avere un loro ruolo all'interno degli stessi. In tutte le grandi democrazie, anche laddove a contendersi la possibilità di governare sono soltanto due o tre partiti, sono presenti anime e correnti diverse all'interno di essi. Il fatto poi che si scoraggi il multipartitismo
estremo non è da biasimare. È sin dall'epoca dell'Assemblea costituente,
infatti, che si deprecano l'instabilità e la frammentazione dei governi di
coalizione.
Il sistema elettorale che risulterebbe dall'approvazione dei quesiti
referendari è una sfida per tutti i partiti, grandi e piccoli. Questi ultimi, in particolare, si troverebbero a dover scegliere se difendere le proprie istanze all'interno di partiti più ampi, arricchendo, in un processo di sintesi, l'identità degli stessi, ovvero concorrere autonomamente nelle elezioni, cosa che rimarrebbe comunque possibile, previo superamento delle soglie di sbarramento (del 4%e dell'8%). Sarebbe, in altre parole, comunque garantito a chi decidesse di competere al di fuori dei partiti unitari la possibilità di un ampio "diritto di tribuna".
Lo strumento referendario, per sua natura, non può introdurre nuove leggi, ma soltanto abrogare singole norme di leggi già esistenti. E se si riesce a far ciò in modo tale che la c.d. normativa di risulta sia migliore della precedente, può forse parlarsi di "ingegneria costituzionale", ma la definizione non sarebbe affatto offensiva. Basti, in tal senso citare, l'incipit di un saggio di Sartori (Ingegneria
costituzionale comparata): "Bentam disse una volta che i grandi 'motori' (engines) della realtà sono la punizione e il premio. E sicuramente 'ingegneria' (engineering) deriva da engine. Mettendo assieme metafora e etimologia, sono arrivato a 'ingegneria costituzionale' per rendere l'idea, primo che le costituzioni sono qualcosa di simile a macchine o meccanismi
che devono 'funzionare' e che devono dare comunque risultati; e, secondo, che è improbabile che le costituzioni funzionino a dovere (come dovrebbero), a meno che non impieghino i 'motori' di Bentham, e cioè punizioni e premi."
Se con l'espressione "ingegneria costituzionale", cioè, si allude alla circostanza che, mediante, la c.d. "tecnica del ritaglio" si interviene sulla legge elettorale ricavando, legittimamente, un sistema migliore di quello vigente, non mi dispiace affatto essere considerato un ingegnere costituzionale.
9. È giusto esautorare il Parlamento in una questione così delicata?
Il Parlamento non viene affatto esautorato. Il referendum è strumento nella disponibilità del corpo elettorale per esercitare un'azione abrogativa sulle leggi, ma ciò non toglie che l'organo legislativo resti pur sempre e pienamente titolare del potere di disciplinare le materie che ne formano oggetto, nel caso di specie il sistema elettorale. Piuttosto, tale strumento di democrazia diretta si dimostra idoneo a stimolare il dibattito politico sull'argomento, con la possibile conseguenza, addirittura, di propiziare un eventuale intervento legislativo, e non già di tagliare fuori il Parlamento.
Certo, se il Parlamento non sarà in grado di fare una buona riforma e rimarrà paralizzato da veti incrociati, dovremo dire grazie al cielo che c'è
lo strumento del referendum. Aggiungo che questo referendum ha la pretesa di intercettare una spinta al
cambiamento al già esistente nella società. Il processo di aggregazione nel Partito democratico e la e la prospettiva della nascita del Partito dei
moderati sono il segno che l'attesa di unità è molto forte nella società. Il referendum è uno strumento per dar voce a questo desiderio.
10. Quindi il referendum non riguarda solo la legge elettorale?
No, il referendum esprime un'idea della politica e della società, come società aperta e fondata sulla competizione, sulle qualità, sulla valorizzazione dei meriti e delle opportunità. Una società in cui ogni cittadino si possa sentire artefice del proprio destino.
sabato 13 giugno 2009
Firma l'appello
I cittadini hanno il diritto di sapere
giovedì 11 giugno 2009
Una nuova democrazia in un'Italia diversa
di Alfredo Reichlin
Dalla morte di Enrico Berlinguer è passato un quarto di secolo, e da allora tutto è cambiato: il mondo. Del comunismo si è sbiadito perfino il ricordo e l’ethos del paese è dominato da idee, culture, modi di vivere rispetto ai quali quell’uomo schivo che invocava l’austerità e che chiedeva ai giovani del suo partito di sottomettersi alla dura disciplina «dell’arido studio», sembrerebbe un alieno. Perché allora torniamo a parlarne? La verità è che – come sempre per certi anniversari - sono i problemi di oggi che ci interrogano.(...)
Berlinguer è stato l’emblema di un nodo fondamentale della storia italiana, affrontato consapevolmente (i suoi amici possono testimoniarlo) ma non risolto: quel peculiare sistema italiano quale era stato edificato dopo la Resistenza e la Costituzione e via via si era sviluppato durante la guerra fredda in un complesso gioco di equilibri interni e internazionali. Una democrazia incompiuta la quale però aveva garantito il progresso del paese. Il Berlinguer che oggi torna ad occupare i nostri pensieri assume la responsabilità della segreteria comunista come un duro dovere e in nome del rifiuto di ogni mito (iniziò citando il Machiavelli che esorta a non almanaccare su «repubbliche che non esistono»).
Ma egli era animato da una profonda convinzione: tornare a pensare la politica in funzione del fatto che le fondamenta dello Stato non si erano consolidate e che quindi ciò che era necessario non erano riforme dall’alto ma una seconda tappa di quella autentica rivoluzione democratica che tra il ’43 e il ’46 aveva trasformato l’Italietta sabauda e fascista nell’Italia repubblicana. A me sembra che stia qui il punto su cui bisognerebbe tornare a riflettere. Perché questo non era il segno del suo anacronismo ma di un problema italiano tuttora cruciale: parlo del bisogno di una politica concepita come strumento di un nuovo protagonismo delle masse sub-alterne.
Non sto parlando di movimenti di protesta ma di un vasto disegno politico basato su una diversa combinazione delle forze storiche, della formazione di un blocco culturale, dell’idea di porre la difesa e lo sviluppo della democrazia su una base più solida, su un nuovo rapporto tra dirigenti e diretti. Questo era il suo tema. Ma se di questo si trattava, era del tutto evidente che egli non poteva sfuggire alla necessità di fare i conti con le ambiguità e il modo di essere del PCI quale la generazione di Togliatti ci aveva consegnato. Bisognava uscire dalla condizione di una opposizione ambiguamente collocata tra una vecchia cultura comunista alternativa al sistema e una visione nazionale (non solo di classe) dei problemi del paese volta a rendere possibile una funzione di governo.
Lo sblocco del sistema politico creato dalla guerra fredda e la fine della democrazia dimezzata non erano più separabili dall’uscire dal campo sovietico. Di qui lo strappo. E, in coerenza, la dichiarazione sulla NATO come strumento anche di garanzia per la gestione stessa della lotta democratica.(...) Io penso che Berlinguer vada giudicato in rapporto al suo disegno politico, ovvero al modo come si misurò con il problema della democrazia italiana quale in quegli anni 70 tornò a riproporsi.
Anni drammatici segnati dal fallimento del centrosinistra, dall’inflazione a due cifre, da grandi sommovimenti sociali che investivano le scuole e le fabbriche; dall’avvento su scala mondiale di una svolta conservatrice che poneva fine al compromesso tra capitalismo e democrazia, dal terrorismo che cominciava a sparare e a uccidere. Riemergeva il grande tema della «democrazia difficile» (come la chiamò Moro) cioè delle basi fragili dello Stato italiano.(...)
Un problema cruciale e per certi aspetti analogo a quello che ancora ci assilla, era davanti a noi. Parlo del venir meno delle condizioni fondamentali che avevano reso possibile quello straordinario balzo dell’economia italiana che fu «il miracolo economico» e cioè il regime tipicamente italiano dei bassi salari, milioni di contadini che abbandonavano i loro paesi e si offrivano ai cancelli delle fabbriche, cambi fissi, una domanda mondiale crescente di beni di consumo durevoli (l’auto, i frigoriferi). È tutto questo equilibrio che saltava, con l’internazionalizzazione dei mercati e il sistema politico ne fu scosso dalle fondamenta.
Si tentò la strada del centro sinistra, il ’68 e l’autunno caldo gonfiavano le nostre vele. Si creava così – è vero - una situazione nuova favorevole al PCI ma anche altamente pericolosa perché se da un lato grandi forze spingevano verso il superamento del sistema politico bloccato dall’altro riemergevano tutte le fratture della società italiana: dalle cieche resistenze delle forze reazionarie, alla mobilitazione del sovversivismo cosiddetto di sinistra. Di tutto ciò Enrico Berlinguer fu acutamente consapevole.
La sua ossessione (posso testimoniarlo) era che essendosi rotto qualcosa di molto profondo nei vecchi equilibri italiani la situazione era arrivata a quel passaggio cruciale in cui se le spinte del paese verso il cambiamento non trovavano uno sbocco politico «avremmo subito una feroce reazione del sistema». Qui sta la ragione originaria di ciò che prese il nome di compromesso storico. L’idea di fondo era che per uscire da quel dilemma occorreva una sorta di patto costituente, il quale facendo leva sull’intesa tra i grandi partiti popolari consentisse al tempo stesso una mobilitazione di vecchie e nuove potenze sociali.
Ciò che egli chiamò una seconda tappa della rivoluzione democratica. Era un progetto forte. Ma i fatti, i duri fatti, dicono che non andò a buon fine. Tuttavia la prova tragica che quella ipotesi non era campata in aria l’ha dato il fatto che Moro è stato assassinato. E la contro prova che la posta in gioco era molto più seria di un «inciucio» tra comunisti e democristiani l’ha data il fatto che, subito dopo finisce la repubblica dei partiti. La DC viene decapitata, il PSI subisce quella metamorfosi che sappiamo e il PCI viene chiuso nell’angolo senza più una capacità di incidere nei grandi processi di ristrutturazione ormai in atto (la mondializzazione, il neo-liberismo, la rivoluzione conservatrice).
Il vuoto politico che si venne a creare era grande e molto pericoloso. Si aprì la fase della lunga transizione italiana che non so se si è chiusa ancora: il lungo travaglio volto a porre su nuove basi lo sviluppo di un paese che si europeizzava. Sono passati 25 anni da allora. È finito il 900. L’URSS non c’è più. La storia del comunismo italiano è davvero storia conclusa. Perché allora parliamo ancora di Enrico Berlinguer? Sostanzialmente, io credo, perché nella sua opera c’è ancora qualcosa di politicamente operante.
Questo qualcosa – per dirla in breve e per usare il suo lessico - io credo sia il bisogno oggettivo di un pensiero più lungo che non si affidi a una nuova filosofia della storia ma sia però capace di leggere la nuova struttura del mondo che resta in gran parte sconosciuta alle mappe di cui disponiamo. In ciò sta il senso del mio ricordo: nel bisogno di un pensiero che produca senso e che ci dica dove andiamo.
mercoledì 10 giugno 2009
GRAZIE
lunedì 8 giugno 2009
qualche dato
In attesa dello spoglio che iniziera questo pomeriggio alle 14.00, vi indico qualche dato sull'affluenza che è stata più bassa anche nella nostra città.
Una flessione di circa 3,7 punti percentuali che se rapportata alla popolazione, indica circa 300 persone rispetto alle passate amministrative non sono andate a votare.
Per vedere i risultati delle europee clicca qui
venerdì 5 giugno 2009
chiusura campagna elettorale
giovedì 4 giugno 2009
lunedì 1 giugno 2009
Abbiamo un futuro in Comune
La ragazza nel video è Emma Squillaci , la candidata del PD a Cassina De' Pecchi, un comune di 12 mila abitanti appena fuori Milano. Ha 25 anni, ha fatto l’assessore in questa legislatura, è brava, di quelle che non mollano neanche se “hai 25 anni, sei una ragazza” e devi fare politica contro un deputato della Lega che promette che se verrà eletto ci penserà lui che è deputato, ad aiutare il paese. E contro un candidato “dei Valori” di cui si sono appena scoperti taciuti conflitti di interessi.
È insomma un modello straordinario di impegno e possibilità di rinnovamento della politica a sinistra, e anche delle fatiche che incontrano questo impegno e queste possibilità. Oltre che il miglior sindaco possibile per il suo comune. (da Wittgenstein.it)
Questa ragazza è la miglior risposta a chi pensa, in maniera dispregiativa, che PROGETTO FILOTTRANO sia una lista troppo giovane. Un vero rinnovamento della politica inizia dal rinnovamento della classe dirigente.